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La
Sorveglianza in Italia |
In questi due
articoli, pubblicati da Repubblica, Giuliano
Tavaroli fornisce la sua verità
giornalistica sul caso Telecom. Così
facendo, ci offre una visione privilegiata
sullo stato dell'arte dell'attività di
intelligence e counterintelligence nel nostro
paese. |
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Tavaroli:
"Tronchetti mi ordinò un dossier sui soldi
ai ds" |
Giuliano
Tavaroli dice: "Quando Pirelli acquisisce
Telecom Italia, agosto 2001, Marco
Tronchetti Provera mi annuncia: "Lei verrà
con me a Roma". Poi mi chiama Carlo Buora.
Lo incontro a Milano in trasferimento dalla
montagna al mare - ero in vacanza con i miei
- e quello mi dice che non se ne fa più
nulla. Mi spiega: "Contrordine, lei resterà
in Pirelli, Enrico Bondi (all'epoca,
amministratore delegato) vuole con sé in
Telecom un altro. Naturalmente ne parlo con
Tronchetti Provera che mi rassicura: "Lei si
occuperà delle mie cose romane". Le sue
"cose romane" erano i suoi guai romani. E
c'erano guai dappertutto, in quel momento".
"Gasparri (il ministro delle
Telecomunicazioni) non gli piaceva e
Tronchetti non piaceva a Gasparri. In
estate, al festival dell'Unità di Rimini,
Massimo D'Alema lo attacca a testa bassa...
Ho già detto che una concezione moderna
della sicurezza (che è reputazione,
soprattutto) deve fronteggiare anche - o
soprattutto - quella roba lì, gli attacchi
politici, le ostilità di parte, i
pregiudizi, i veleni. Deve saper leggere e
anticipare le iniziative avverse,
condizionare le mosse dei rivali o ridurli
al silenzio. E' un lavoro che si nutre di
conoscenza. Conoscenza dell'avversario,
delle sue ragioni più autentiche e nascoste,
ma è anche "sapere" e dunque capacità di
adattarsi a quella "emergenza" o sventandola
o ridimensionandola. In gergo, le chiamiamo
"analisi del rischio" e "analisi di
scenario". In quell'avvio di gestione della
Telecom, ne avevamo bisogno come dell'aria.
Il momento intorno a noi era sconfortante.
Non c'era stato soltanto l'11 settembre,
c'erano ancora le macerie dello sgonfiamento
della bolla speculativa, la catastrofe dei
bond argentini".
(Tavaroli qui svela - e nemmeno troppo
velatamente - il lavoro di spionaggio a cui,
sostiene, "nessuna azienda rinuncia". Lo
riduce a raccolta di informazioni, a
"mappatura" - diciamo così - dei caratteri,
delle opinioni, delle forze e delle
debolezze dei potenti, vecchi e nuovi, che,
di volta in volta, Tronchetti deve
fronteggiare, rassicurare, tenere alla
larga. La "conoscenza", come la definisce, è
soltanto il punto di partenza del suo
lavoro. Per questi giocatori, per questo
gioco, è la mossa d'apertura, il livello
minimo richiesto per poter entrare in campo.
La differenza vera la fa il "sapere", la
combinazione di competenze multiple che
rende possibili scambi, pratiche,
compatibili assunzioni di rischi, la
creazione di qualche minacciosa favola da
diffondere. Tavaroli adopera un altro
vocabolario, un'altra sintassi. Parla di
"analisi delle forze in campo", di
"amici/nemici" ma, in soldoni, non è che
l'esito sia diverso. Sempre di spionaggio si
parla. La scena pare questa. Marco
Tronchetti Provera, arrivato in Telecom, è
consapevole di essere uno "straniero" nella
geografia del potere. Le leve del comando -
i primi governi Berlusconi hanno un peso
politico debole, frammentato, privi di una
strategia di lungo periodo, stretti intorno
a un uomo solo interessato esclusivamente al
proprio destino personale e imprenditoriale
- sono custodite e sostenute da uno schema
"antico" che Tavaroli, come ambasciatore di
Tronchetti, ha incontrato nel giro delle
sette chiese romane. "Un network eversivo",
lo definisce. Ne indica qualche nome: Letta,
Bisignani, Cossiga, Scaroni, Elia Valori,
Pollari, Speciale, Corigliano. E' un'area di
potere che costringe un estraneo come
Tronchetti in un disequilibrio informativo
che lo condanna a subire, sopportare; a
essere condizionato. Essere consapevoli di
quell'asimmetricità è il punto di partenza.
Sapere è allora il terreno della risposta.
Come affrontare l'avversario? Come rendergli
conveniente venire a patti o rinunciare a
ogni ostilità? Come guadagnare un margine di
inviolabilità? E' un confronto sotterraneo e
senza esclusione di colpi. A sentire
Tavaroli - che va ripetuto non è un
testimone neutro, ma il principale indagato
dell'affaire - è questo il mestiere che
Marco Tronchetti Provera gli affida. "Di
volta in volta bisogna adattare le proprie
iniziative all'avversario. D'Alema, per
esempio. Penso di contattare Lucia
Annunziata, allora direttore dell'agenzia
Apcom. Ha buoni rapporti con D'Alema. Scelgo
lei come canale per entrare in contatto con
il presidente dei Ds. Con Lucia si parla
anche di futuro. Lei mi prospetta
l'acquisizione dell'agenzia, me ne mostra i
vantaggi e le opportunità. Non era una
cattiva idea, in fondo. Non avevamo in
pancia contenuti e ne avevamo bisogno.
Peraltro, saremmo entrati in contatto con il
mondo Associated Press, il meglio. L'affare
poi si fece, come si sa. Comunque,
l'incontro D'Alema/Tronchetti si organizzò e
Lucia divenne consulente della Telecom.
Racconto un altro episodio dello stesso
tipo. Un giorno mi chiama Buora. Nel suo
ufficio ci sono tutti quelli che contano e
sembrano sull'orlo di una crisi di nervi.
Buora mi dice che Giulio Tremonti (ministro
dell'Economia), soffia ai banchieri, in ogni
occasione, che Telecom è prossima al
fallimento. La voce diffusa in ambienti
qualificati da una fonte così autorevole è
per noi una sciagura. Mi metto al lavoro.
Tra Tremonti e Tronchetti non ci sono
rapporti. Ho come la sensazione che
Tremonti, da sempre consulente dei maggiori
imprenditori italiani, diventato ministro,
stia scaricando sui suoi antichi assistiti
una ruggine velenosa. Decido di mettermi in
contatto con il capo della sua segreteria,
un ufficiale della Guardia di Finanza, Marco
Milanese, che poi lascerà le Fiamme Gialle
per lavorare direttamente nello studio di
Tremonti. Contattare Milanese, proprio lui e
non altri, è un modo per dire a Tremonti:
conosco i tuoi metodi, conosco il tuo
sistema, chi lo agisce e interpreta, da dove
possono venirti le informazioni - vere o
false - che possono danneggiare la mia
azienda. Non c'è bisogno di molte parole.
Quelle cose lì, si capiscono al volo nel
nostro mondo. I due - Tronchetti e Tremonti
- si incontrano. I problemi si risolvono.
Nessuno parlerà più di fallimento con i
banchieri.
Altro episodio. Il Dottore (Tronchetti) mi
chiede di dare uno sguardo a Finsiel, allora
amministrata da suo cugino Nino Tronchetti
Provera. Perché non si vince una gara,
perché si perde sempre? Gli appronto una
rete di relazioni e qualche "analisi".
Ancora. La Kroll, la maggiore agenzia
d'investigazione del mondo, riceve da Gianni
Letta (sottosegretario alla presidenza del
Consiglio) l'incarico di rintracciare il
tesoro segreto di Calisto Tanzi (Parmalat).
Nell'autunno del 2004, l'uomo in Italia
della Kroll, un belga d'origine italiana che
si chiama Nunzio Rizzi, incontra Gianni
Letta e gli chiede "se il governo ha nulla
in contrario che l'agenzia organizzi
un'azione di discredito contro Marco
Tronchetti Provera". Sorprendentemente,
invece di metterlo alla porta, Letta (ha
anche la delega ai servizi segreti) prende
tempo: "Le farò sapere!". Letta avverte
Tronchetti. Che, allarmatissimo, mi spedisce
a Roma in tutta fretta. E' il mio primo
incontro con Gianni Letta. Mi tiene lì per
quaranta minuti. Beviamo un caffè. Mi dice:
noi abbiamo un amico in comune, "il nostro
Marco" (Mancini). Letta mi spiega le
intenzioni di Rizzi. Organizzo una
contro-operazione di discredito ai danni
della Kroll. Il 6 novembre 2004, faccio
pubblicare che c'è "un mandato d'arresto per
l'uomo della Kroll, Nunzio Rizzi". La
notizia è del tutto falsa, ma alla Kroll
capiscono che gli è andata male. E noi, in
Telecom, capiamo il senso di quella storia:
hanno mandato a dire a Tronchetti che non si
fidano di lui, che la sua reputazione può
essere sporcata se gli ambienti politici non
fanno barriera e quindi è meglio andare
d'accordo".
(Tavaroli chiarisce che dal suo orizzonte di
lavoro - e intende la rete di rapporti e
liaison che possono rendere trasparenti o
protette le intenzioni di Tronchetti -
nessuno è escluso. Nemmeno la magistratura).
"Era più o meno il settembre del 2001. Mi
chiama Armando Spataro, allora membro del
Consiglio superiore della magistratura. Mi
dice: "Il tuo capo ha risolto i problemi di
Berlusconi". Era accaduto che Pirelli Real
Estate avesse rilevato Edilnord di
Berlusconi che navigava in cattive acque.
Per Pirelli era un affare, per Spataro un
favore. Nel 2003 Armando ritorna a Milano
come procuratore aggiunto. Ho l'idea di
farlo incontrare con Tronchetti. Organizzo
il meeting. Ma, quel giorno, commetto un
errore grave. Invece di andare via, come
facevo sempre, rimango nella stanza e sono
testimone della loro conversazione. Che non
va per nulla bene. Quasi al termine,
Tronchetti chiarisce che magistratura e
politica devono reciprocamente rispettarsi e
che il lavoro dei giudici non può
pregiudicare le responsabilità della
politica. E' più o meno una banalità, ma
detta in quel momento suonò alle orecchie di
Armando come una difesa pregiudiziale di
Berlusconi e una censura per le iniziative
della magistratura. Spataro ne ricava la
convinzione di avere di fronte un uomo
piegato agli interessi di Berlusconi.
Nessuno gli ha tolto più quell'idea dalla
testa.
Questo era il mio lavoro: creare una rete di
protezione personale intorno a Tronchetti e
di sicurezza per l'azienda, rimuovere le
inimicizie preconcette, le ostilità, il
malanimo, le presunte incompatibilità. Non è
sempre affare per deboli di stomaco. Ecco
che cosa intendo quando dico che il
perimetro della security si era di molto
allargato. Ecco che cosa intendeva Marco
Tronchetti Provera quando mi diceva: "Le
abbiamo chiesto troppo". Se avevo bisogno di
informazioni sugli antagonisti mi rivolgevo
a Emanuele Cipriani (investigatore privato
della Polis d'Istinto). Che me le procurava.
Sono pronto ad ammettere che ci sono state -
ma questi sono affari di Cipriani - indagini
illegali. Ammetto che bisognerà spiegare le
intrusioni informatiche ai danni di Massimo
Mucchetti e Vittorio Colao (vicedirettore
del Corriere e amministratore delegato di
Rcs). Ma non ci sono state intercettazioni
abusive né ricatti. Nell'indagine della
procura di Milano, non ce n'è traccia. Il
mio lavoro non si è mai arricchito di quella
roba lì. Le cose andavano così. Fino a
quando sono stato in Pirelli, sono stato più
o meno un "centro di servizi". Tronchetti
Provera, da Telecom, aveva bisogno di
informazioni. Mi chiamava e io provvedevo a
raccoglierle. Nessuno si dovrebbe
meravigliare. Le aziende vivono di
informazioni fino alla raffinatezza delle
"analisi predittive". E non esitano a
sporcarsi le mani. Un esempio? Per quel che
so, l'"Operazione Quattro Gatti", lo
sganciamento di Mastella dal centro-destra
organizzato nel 1998 da Cossiga, fu
finanziato per intero dai gestori della
telefonia: Sentinelli (Tim), Novari (3),
Pompei (Wind), con il sostegno della
Ericsson.
Quando arrivo in Telecom, il lavoro cambia.
Agisco "di iniziativa" sulle analisi tipiche
della sicurezza. Attenzione, però, il
"sistema Tavaroli" non era e non è mai stato
il "sistema Cipriani"".
(Tavaroli non ammette che l'uno integrava
l'altro, che l'uno sosteneva l'altro e mai
parla del ruolo di Marco Mancini, il capo
del controspionaggio. Lo ripetiamo ancora:
questa è soltanto la verità di un indagato).
"E' a questo punto che arrivano i primi
segnali dal "network eversivo". Si fanno
sotto quelli che io chiamo "i massoni".
Cominciano a scorgere, avvertendole come una
minaccia, tutte le potenzialità di quel
lavoro, della mia presenza a Telecom, del
mio legame con Marco Mancini in ascesa nel
Sismi, delle opportunità di integrazione in
un unico "nastro" delle informazioni in
possesso per motivi istituzionali di una
grande azienda di telecomunicazioni e di un
servizio segreto. Lo avevate capito anche
voi a Repubblica, ma immaginavate che
Telecom fosse il centro del "sistema" e non
solo un segmento, il più fragile. Arriva il
primo segnale e non faccio fatica a
"leggerlo". Le manovre compromettenti (è
sospettato di essere coinvolto in un
traffico d'armi) di Slaedine Jnifen,
fratello di Afef (la moglie di Tronchetti)
con uno dei figli di Gheddafi mi sono
segnalate prima da Nicolò Pollari. Mi dice:
i servizi libici minacciano di ucciderlo.
Poi da Luigi Bisignani che aveva avuto
l'informazione dalla Guardia di Finanza.
Capii la musica. Anche Afef parve a
rischio".
(Tavaroli non dice né vuole dire se il
dossier raccolto anche sulla moglie di
Tronchetti sia stato una sua personale
iniziativa o un'operazione commissionata da
altri o addirittura concordata con il
presidente della Telecom).
"E' un fatto che Afef si porta dietro tutte
le amicizie romane del primo marito, Marco
Squatriti (Andreotti, Bisignani, Letta).
Ricordo che, quando Squatriti finisce in
carcere, il primo che gli va a fare visita,
come avvocato anche se non era il suo
avvocato, è Cesare Previti. L'uomo deve
essere finito al centro di una faccenda
molto seria. Perché nessuno s'incuriosisce
al finale della storia di Italsanità (era la
società dell'Iri che aveva affittato dai
privati 28 immobili da destinare a residenze
per anziani, impegnandosi a pagare affitti
per 1.000 miliardi in nove anni, di cui 572
a Squatriti, titolare degli 11 contratti più
consistenti)? Sono stati rimborsati a
Squatriti un centinaio di miliardi di lire.
Oggi Squatriti non ha più un soldo. Dove
sono finiti i denari? E, soprattutto, di chi
erano? Forse per tenersi buono questo giro,
il Dottore ingaggia Maurizio Costanzo (P2,
tessera Roma 152), tutt'uno con Previti,
Squatriti, Gianfranco Rossi (il faccendiere
romano, arrestato nel giugno 1994, è
l'intestatario del conto corrente "coperto"
FF 2927 presso la Trade Development Bank di
Ginevra, conto sul quale sono affluiti 2
milioni e 200 mila dollari fornitigli da
Bisignani e parte della maxitangente pagata
dall'Enimont ai partiti di governo), Luigi
Bisignani (P2, tessera Roma 203).
Tronchetti retribuisce Costanzo con 3
milioni di euro all'anno soltanto, in
definitiva, per costruire l'immagine di
Afef. Ma, in realtà, Tronchetti vuole
tenerlo buono e, nel contempo, alla larga.
Costanzo non aveva nemmeno il numero diretto
del suo cellulare. Si ripetono i segnali
negativi.
Salvatore Cirafici, capo della sicurezza di
Wind, un massone, mi racconta che è stato
interpellato da un giornalista del Giornale
che sta preparando un articolo contro di me,
ispirato da Luigi Bisignani. Che ci fossero
fibrillazioni in corso, lo deduco anche da
altri episodi. Poco dopo il Natale del 2002,
diciamo nel gennaio del 2003, Berlusconi
convoca Pollari a Palazzo Chigi e gli chiede
a brutto muso: "Chi è questo Tavaroli?", "E'
vero che Mancini è un comunista"? Pollari
replica, difende Mancini e comunica che sta
per nominarlo capo della 1° Divisione.
Berlusconi abbozza. Non poteva dire di no a
Pollari. Come non glielo ha potuto dire poi,
con il governo successivo, Romano Prodi, che
ha sempre difeso il direttore del Sismi.
La faccio breve, nel 2004 fonti della
Guardia di Finanza fanno sapere in Telecom
che "Tavaroli, da punto di forza, è
diventato un punto di debolezza". A maggio
mi convoca Tronchetti e, alla presenza di
Buora, mi consiglia di accettare una
aspettativa di tre mesi per far calare il
polverone su di me e la società. Accetto,
non ho alternative. Per tre mesi, il
telefono si fa muto. Non mi chiama più
nessuno, se si esclude Adamo Bove (il
dirigente della security governance della
Telecom precipitato il 21 luglio 2006 da un
cavalcavia della tangenziale di Napoli:
suicidio o istigazione al suicidio?). Vado
in Romania. Mi richiamano in Italia dopo
l'attentato al Tube di Londra del 7 luglio
2005. Tronchetti chiede a Letta se può darmi
una consulenza antiterrorismo. Letta si dice
d'accordo "nell'interesse del Paese". A fine
anno, il Dottore mi dice: devi rientrare.
Nel gennaio 2006, quando sono pronto a
rientrare, Cipriani si fa abbindolare dai
carabinieri di Firenze che non hanno mai
smesso di blandirlo: "Vuota il sacco e le
tue responsabilità saranno ridotte al
minimo...".
Quello ci casca e trovano il dvd con i file
illegali, peraltro già in possesso di Emilio
Ricci, avvocato, romano, comunista, amico
mio, di Pollari, di D'Alema. Cipriani
consegna la password ai pm. In tempo reale
la notizia arriva a Tronchetti - penso
attraverso l'avvocato Mucciarelli. Il
Dottore mi convoca. Mi dice: hanno il dvd;
l'hanno aperto; lei non può più tornare in
azienda. Io mi mostro preoccupato. Gli dico:
su quel dvd ci sono i file di Brancher, e di
Cesa, e la faccenda di D'Alema e dell'Oak
Fund. Inizialmente, Tronchetti finge di non
ricordare. "D'Alema? - dice - e che c'entra,
io non so nulla...". Poi, qualche giorno
dopo, gli torna la memoria e ammetterà che
era stato lui a commissionarmi quel lavoro
per verificare se, nell'acquisizione di
Colaninno, fossero state pagate tangenti.
Qualche mese dopo, in maggio, Tronchetti
alla presenza del solito Buora mi chiede le
dimissioni. Fu un lavoraccio, l'inchiesta
"Oak Fund". Per quel che poi ha scritto
Cipriani nel dossier chiamato "Baffino", ora
nelle mani della procura di Milano, i soldi
hanno viaggiato nella pancia di trecento
società in giro per l'Europa per poi
approdare a Londra nel conto dell'Oak Fund,
a cui erano interessati i fratelli Magnoni
(Giorgio, Aldo e Ruggiero, vicepresidente
della Lehman Brothers Europe) e dove avevano
la firma Nicola Rossi e Piero Fassino.
Queste cose le ho dette anche ai pm che mi
hanno interrogato. Loro mi dicevano: non
scriviamo i nomi nel verbale, diciamo
"esponenti politici...".
Formalmente perché è necessario attendere la
sentenza della Corte Costituzionale per
sapere se quei dossier raccolti illegalmente
sono utilizzabili nel giudizio. Ma, dico io,
se mi prendi a verbale non hai più bisogno
della Corte Costituzionale, hai il mio
verbale che contiene la notizia di reato. E
allora?
Sono assolutamente convinto che Tronchetti
sapesse in tempo reale quali fossero le
intenzioni e le mosse della procura. Credo
che egli abbia lasciato esplodere il "caso
Rovati" al solo scopo di anticipare il
governo e trovare una dignitosa e sdegnata
via d'uscita. Con quel che sarebbe successo
di lì a un paio di mesi, il governo avrebbe
potuto dirgli: non hai l'autorità né la
credibilità per governare le reti. Ora
Tronchetti Provera lascia dire e scrivere
che sono stati Romano Prodi, Giovanni Bazoli
e Guido Rossi a sottrargli la Telecom senza
dire una parola su quel network di potere,
eversivo che io, nel suo interesse e su sua
richiesta, ho fronteggiato e da cui sono
stato distrutto; quell'area di potere che
decide le nomine che contano, che in
apparenza non chiede e, invece, ordina con
messaggi traversi che è bene cogliere al
volo per non dare l'idea che la si stia
sfidando. Genio dell'opportunismo qual è,
Tronchetti vuole ritornare sulla scena forte
della liquidità incassata in uscita dalla
Telecom, candido e senza un'ombra. Solo io
dovrei pagarne il prezzo, ma gli è capitato
il peggiore cliente possibile. Non ho nulla
da perdere. Mi hanno già tolto tutto. Devo
soltanto dimostrare ai miei cinque figli che
il loro papà non è il mascalzone che
raccontano, che il loro papà ha concesso
soltanto fiducia a chi non la meritava. Per
questo ripeto: non accetterò mai di essere
il capro espiatorio di questo affare". |
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22 luglio 2008
Repubblica
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"E
Tronchetti mi disse: Le abbiamo chiesto
troppo" |
A leggere i
giornali, e qualche anticipazione del
documento che annuncerà oggi la chiusura
delle indagini del pubblico ministero di
Milano, l'affaire Telecom sembra essersi
sgonfiato come un budino malfatto. Più o
meno, si sostiene che fossero all'opera, in
Telecom, soltanto un mascalzone (Giuliano
Tavaroli) e un paio di suoi amici d'infanzia
(Emanuele Cipriani, un investigatore
privato, e Marco Mancini, il capo del
controspionaggio del Sismi). La combriccola
voleva lucrare un po' di denaro per far
bella vita e una serena vecchiaia. I
"mascalzoni" avrebbero abusato
dell'ingenuità di Marco Tronchetti Provera
(presidente) e di Carlo Buora
(amministratore delegato). Tutto qui.
L'affaire Telecom è stato dunque, secondo
quest'interpretazione, soltanto un bluff
mediatico-giudiziario utilizzato (o, per
alcuni avventurosi osservatori, organizzato)
da circoli politici per sottrarre al
"povero" Tronchetti la società di
telecomunicazioni.
La ricostruzione è minimalista. Evita di
prendere in esame, anche soltanto con
approssimazione, la sequenza dei fatti
accertati (a cominciare dalla raccolta di
migliaia di dossier illegali); la loro
pericolosità; i protagonisti (alcuni mai
nemmeno nominati); un multiforme network di
potere che condiziona ancora oggi
un'imprenditoria debole senza capitali e una
politica fragile senza legittimità:
imprenditoria e politica sorrette, protette
o minacciate - secondo convenienza - da
alcune burocrazie della sicurezza. È nelle
pieghe di questi deficit e contraddizioni
italiani che è fiorito l'affaire, uno
scandalo che nessuno - a quanto pare - ha
voglia di affrontare. Vedremo se lo farà la
prudente magistratura di Milano.
Per definire almeno la cornice del "caso" e
gli attori e un metodo e qualche fondo
fangoso, Repubblica - nel corso del 2008 -
ha avuto sei colloqui (a Bereguardo, Milano
e Albenga) con un Giuliano Tavaroli convinto
già da tempo (e quel che accade sembra
dargli ragione) che "nessuno avrà interesse
a celebrare il "processo Telecom". Nessuno:
né i pubblici ministeri, né gli imputati, né
la Telecom vecchia, né la Telecom nuova. Ma
io non sono e non farò né accetterò mai di
essere il capro espiatorio di questo affare.
Io vorrò con tutte le mie forze il processo
e nel processo vorrò vederli in faccia
ripetere quel che hanno riferito ai
magistrati. Il mio vantaggio è che tutti -
tutti - hanno mentito in questa storia, e io
sono in grado di dimostrare che le
informazioni che ho raccolto sono state
distribuite in azienda perché commissionate
dall'azienda e nel suo interesse... Ne ho
sentite di tutti i colori. Come Marco
Tronchetti Provera che nega di aver mai
avuto conti all'estero, come se non sapessi
che per lo meno fino al 2006 i suoi conti
erano a Montecarlo".
Tavaroli lamenta di essere stato "messo in
mezzo" per aprire la strada all'inchiesta
Abu Omar. E' il "signore della sicurezza"
Telecom. I pubblici ministeri devono
intercettare gli uomini del Sismi che hanno
cooperato con la Cia per sequestrare
illegalmente il cittadino egiziano,
sospettato di essere un terrorista. Con i
buoni rapporti di Tavaroli con il Sismi,
l'operazione sarebbe stata a rischio. "Così
- dice Tavaroli - hanno cominciato a
indagare su di me in modo strumentale. Sì,
strumentale. Potrei farvelo leggere nelle
carte. Nelle carte c'è scritto. Dispongono
la perquisizione nel mio ufficio con un
unico obiettivo: rimuovermi dal mio posto
nella convinzione che, se non lo avessero
fatto, non avrebbero avuto campo libero per
le intercettazioni dell'inchiesta Abu Omar e
quindi per l'ascolto decisivo dei funzionari
del Sismi. Pensavano: questo Tavaroli se ne
accorge e avverte il suo amico Mancini (era
il capo del controspionaggio
dell'intelligence) e noi non caviamo un
ragno dal buco. Così sono finito nel
tritacarne...".
Sarà, quel che è saltato poi fuori
giustificava l'iniziativa penale, ma qui
conta altro. E' vero o è falso che, nel
tempo, si è creata una sovrapposizione
operativa, una contiguità d'interessi tra
l'intelligence di Stato, le security delle
grandi aziende al servizio di obiettivi ora
istituzionali ora politici ora economici,
ora l'uno e l'altro? Un "sistema" che per
alcuni anni ha avuto il suo centro nella
Telecom di Marco Tronchetti Provera?
Tavaroli dice che, se si vuole davvero
capire che cosa è accaduto in Telecom,
bisogna andare indietro nel tempo.
Una data d'inizio.
"Questo metodo ha, se si vuole, una data
d'inizio con la nascita del nucleo speciale
di polizia giudiziaria a Torino, un gruppo
che non aveva alcuna corrispondenza
nell'Arma dei carabinieri. Esisteva soltanto
lì a Torino, dove il generale Dalla Chiesa
era comandante (Tavaroli lo chiama sempre il
Generale, e sembra di vedere la maiuscola).
E' nel "nucleo" che nascono l'operazione di
Frate Mitra che conduce all'arresto di
Renato Curcio o all'arresto di Patrizio
Peci. In quest'occasione furono "infiltrati"
in Fiat - con l'assenso e la collaborazione
della "sicurezza" dell'azienda - cinque
operai "collaborazionisti": uno di essi fu
poi reclutato dalle Brigate Rosse; fu l'uomo
che indicò al Generale il "covo" di Peci.
Dopo questi successi il metodo trovò una
"natura giuridica", una sistematizzazione
legislativa. Non è che le nuove leggi lo
prevedessero esplicitamente, ma rendevano
possibile - meglio, tolleravano - quei
sistemi se, in qualche modo, "controllati"
dall'autorità giudiziaria. Diciamo che le
linee di collaborazione con la magistratura
si accorciarono e capitava che il pubblico
ministero lavorasse gomito a gomito con il
sottufficiale operativo senza la mediazione
delle gerarchie. Nacquero le sezione
speciali anticrimine. Con l'assassinio di
Guido Rossa, comincia la collaborazione
anche del Pci e dei sindacati. Ugo Pecchioli
offre tutte le informazioni che i militanti
e i sindacalisti raccolgono nelle fabbriche.
Indicano tutti i nomi di coloro che, in
fabbrica, sono o paiono essere vicini al
terrorismo. Ci sono ancora in giro
ex-sindacalisti che possono essere buoni
testimoni di questo lavoro".
(Dunque, vediamo integrati in una sola
"piattaforma", l'Arma dei carabinieri con un
suo nucleo speciale, le procure alle prese
con un "diritto speciale di polizia", le
attività informative della più grande
impresa privata del Paese, la Fiat, e del
maggior partito di opposizione, il Pci,
presente in modo massiccio nel sindacato e
nelle fabbriche. Lo schema è destinato a
riprodursi e, con la sconfitta del
terrorismo, a deformarsi, a
"privatizzarsi").
"Diciamo che nella lotta al terrorismo
nacque un "sistema" e fu selezionata
un'élite di professionisti, che è o è stata
al vertice della security delle maggiori
imprese italiane. Con i pool di magistrati,
operavamo a stretto contatto, avevamo molte
responsabilità anche di decisione. Accadde
quello che nelle aziende si sarebbe chiamato
"accorciamento della catena decisionale".
Gli ufficiali in parte partecipavano e
comprendevano l'importanza dell'esperienza,
in parte avvertivano di avere meno potere:
contavano le competenze e non il grado sulla
spalla. Si forma così una generazione di
uomini che emerge per il merito, la
competenza. Siamo in un periodo di
"leadership situazionali", ovvero di persone
che prendono la leadership a seconda delle
situazioni e delle circostanze, con grande
flessibilità. E' in questo periodo che si
afferma "la dittatura della conoscenza".
Conta chi ha competenza e conoscenza e
capacità di analisi. Ecco perché io e Marco
Mancini ci affermammo nonostante fossimo
soltanto dei sottufficiali: noi avevamo
competenza e conoscenza. I generali avevano
i gradi, ma né l'una né l'altra.
Nel dicembre del 1988, quasi con un colpo di
testa - decisi d'istinto, dalla mattina alla
sera, appena mi arrivò la proposta - lasciai
l'Arma per l'Italtel. Ormai noi
dell'Antiterrorismo ci giravamo i pollici.
Molti si decisero a riciclare i loro metodi
nella lotta alla criminalità organizzata.
Non era per me. Io penso che la mafia ti
rovini la testa, ti avveleni. Quando mi
chiudo alle spalle la porta di casa, voglio
poter lasciare fuori anche il pensiero del
lavoro. Ma quando hai a che fare con gente
che scioglie un bambino nell'acido, come fai
a dimenticartelo? Te lo porti a casa, il
lavoro. Andai via".
"Lo scambio delle figurine"
"Per il mondo della sicurezza privata,
quelli, sono anni decisivi. Nel 1989 cade il
Muro, implode l'Unione Sovietica. Le ragioni
costitutive di una cultura della sicurezza,
della sua organizzazione, metodo, visione
del mondo vengono meno. Io ho 30 anni e sono
consapevole che devo trasformarmi in un uomo
di business. Comprendo subito che la
sicurezza deve diventare una funzione
dell'azienda, non restare - come era allora
- un corpo separato dell'impresa. Tra il
1991/1992 nascono business intelligence,
market intelligence, competitive
intelligence... Un vecchio mondo si
frantuma, prestigiosi "salotti" diventano
polverosi e inutili. Mondi che prima erano
separati da ostacoli, più o meno,
invalicabili - o valicabili a prezzo di
grandi rischi - entrano in costante
comunicazione. A quel punto i servizi
segreti che, con il mondo diviso in blocchi,
erano monopolisti dell'informazione perdono,
nello spazio di un mattino, la loro
supremazia. E' uno scettro che passa nelle
mani dell'impresa privata.
Italtel, per dire, aveva dopo il 1989
150/200 uomini in Urss e agiva con i governi
delle singole repubbliche dell'ex-blocco
sovietico mentre il Sismi faticava per
infiltrare anche soltanto un uomo oltre le
linee. Chi contava di più? Chi poteva avere
più informazioni?
Queste condizioni creano un nuovo mercato.
Comincia lo scambio delle figurine tra
security private e servizi segreti. La
parola d'ordine convenuta è "diamoci una
mano". E' una collaborazione che cresce, si
allarga e sviluppa senza uno straccio di
protocollo, senza rendere trasparente e
condiviso che cosa è lecito, che cosa non lo
è. In ogni altro paese - Stati Uniti,
Inghilterra, Francia - ci sono protocolli
che regolano i rapporti tra imprese,
sicurezza privata e servizi. Da noi, c'è un
vuoto che ciascuno occupa come crede.
Nel 1996, aprile, vado in Pirelli. A quel
punto le aziende che agiscono sul mercato
globale hanno già una sovranità superiore a
quella degli Stati. I governi hanno
abdicato. L'11 settembre, se riproduce nel
mondo una nuova logica bipolare Occidente
contro Islam, esalta le potenzialità e il
protagonismo delle imprese multinazionali o
plurinazionali. Con in più lo straordinario
e inedito potere della tecnologia. Cambia di
nuovo tutto. Cambiano la cultura e i players
dell'informazione. Tutti affidano tutto
all'indagine elettronica: tracce
elettroniche, carte di credito ecc. ecco che
le telecomunicazioni diventano appetite,
sempre più strategiche. Le indagini si fanno
con le intercettazioni. Di nuovo: difficile
dividere lecito e meno lecito. In Francia,
la polizia fa le intercettazioni legali; la
Direction de la Surveillance du Territoire
(Dst) fa quelle illegali. Tutto normale, in
Italia no".
"Tronchetti voleva il Corriere"
"Poi Pirelli acquista la Telecom. E' per
tutti noi una sorpresa. Forse non tutti
sanno che Tronchetti Provera non aveva
alcuna intenzione di entrare in Telecom, in
realtà. In quel 2001, stava scalando Rcs. Ha
sempre avuto una passione non nascosta per
il Corriere della Sera che riteneva, e forse
ritiene, un'istituzione essenziale per la
democrazia italiana. In quei mesi stava
acquisendo posizione e posso credere che si
preparasse a lanciare un'offerta pubblica di
acquisto. Fu Buora a proporre il dossier
Telecom. Tronchetti gli diede fiducia.
Le cose, per noi, non stanno per niente
messe bene nel 2001, quando Berlusconi e i
suoi si insediano a palazzo Chigi. Era al
potere una famiglia impenetrabile, gente che
è insieme, gomito a gomito, dai banchi di
scuola, gente che pensa soltanto agli affari
e all'assalto alla diligenza e tutti - dico,
tutto l'establishment - sono "fuori asse". A
chi rivolgersi? Come scegliere gli
interlocutori "giusti"? E ci sono davvero,
in quella compagnia, gli "interlocutori
giusti"? Per dirne una. Telecom aveva un
contenzioso per un centinaio di miliardi di
lire con il ministero della Giustizia. Come
venirne a capo? Chi era Roberto Castelli? E
quel Brancher lì (era l'"ambasciatore" di
Forza Italia presso la Lega di Bossi), che
"pesce" era?
La verità è che noi in quell'avvio avevamo
soltanto pochissimi interlocutori. Ad
esempio, Pisanu (ministro per l'attuazione
del programma). Vecchia scuola. Formazione
politica solida. Interlocutore affidabile.
Con lui, Tronchetti filò subito d'amore e
d'accordo. Con gli altri soltanto guai. E i
guai toccava a me affrontarli. In quel
periodo accade qualcosa che mi fa capire.
Accade che dovevamo rivedere gli organici e
le responsabilità negli uffici di Roma. Una
persona, di cui non voglio dire per il
momento il nome, mi sollecita a "salvare",
negli uffici della capitale, la signora
Laura Porcu. La cosa mi convince e la Porcu
viene "salvata". Dopo qualche tempo, la
Porcu mi chiede se voglio essere messo in
contatto con personalità influenti del mondo
romano. Accetto".
"Il network eversivo"
"La Porcu organizza un giro delle sette
chiese, un'agenda di incontri con Nicolò
Pollari, Francesco Cossiga, Paolo Scaroni
(Eni), Enzo De Chiara (uno strano
personaggio, finanziere italo-americano,
vicino alle amministrazioni Usa, già finito
in qualche inchiesta giudiziaria), Pippo
Corigliano (Opus Dei) che a sua volta mi
presenta Luigi Bisignani che già aveva
chiesto di incontrarmi (se fosse stato
siciliano, dopo averlo conosciuto, avrei
pensato che fosse un mafioso) e la
Margherita Fancello (moglie di Stefano
Brusadelli, vicedirettore di Panorama), che
a sua volta mi riportò da Cossiga, Massimo
Sarmi (Poste), Giancarlo Elia Valori, il
generale Roberto Speciale della Guardia di
Finanza. Insomma, dai colloqui, capisco che
questi qui sono in squadra.
(Tavaroli annuncia in settembre una memoria
difensiva molto documentata e comunque va
ricordato qui che la sua è la ricostruzione
di un indagato). Mi immagino una piramide.
Al vertice superiore Berlusconi. Dentro la
piramide, l'uno stretto all'altro, a diversi
livelli d'influenza, Gianni Letta, Luigi
Bisignani, Scaroni, Cossiga, Pollari. E' il
network che, per quel che so, accredita
Berlusconi presso l'amministrazione
americana. Io non esito a definire questa
lobby un network eversivo che agisce senza
alcuna trasparenza e controllo.
Mi resi conto subito che quella lobby di
dinosauri custodiva segreti (gli illeciti
del passato e del presente) e li creava. Che
quei segreti potevano distruggere la
reputazione di chiunque e la vera sicurezza
è la reputazione. C'era insomma, tra la
Telecom di Tronchetti e quell'area di
potere, un disequilibrio informativo che
andava affrontato subito e nel miglior modo
da noi, riequilibrandolo o addirittura
annullandolo con la creazione, a nostra
volta, di altri segreti. C'era bisogno di
coraggio. Che è proprio la virtù che manca a
Marco Tronchetti Provera. Ha il culto di se
stesso. Non decide mai. Non se la sentiva di
attaccare frontalmente, magari
pubblicamente, quel network né voleva
"sporcarsi le mani", cioè entrare nel club
pagandone il prezzo in opacità, ma
incassandone i vantaggi lobbistici. Non
prende posizione. Non si "compromette" né in
un senso né nell'altro. Per questo quella
"compagnia" lo scarica. Come, lo spiegherò
presto. Il fatto è che quando Tronchetti si
insedia in Telecom è debole. Debole non per
l'indebitamento, come tutti pensano. Ma per
il suo isolamento nel mondo politico,
economico. Tronchetti non piace alla
politica. Ne è distante e questo non è
gradito. Non capisce la politica di Roma e
questo è un problema. Non piace agli
industriali. La Confindustria è guidata da
Antonio D'Amato, espressione della media
industria, e questo è un altro problema. E'
su questa zona di confine che mi dicono di
"ballare". E io ballo. Me ne ha dato atto,
quando mi ha liquidato, anche Tronchetti. Mi
ha detto papale papale: "Forse le abbiamo
chiesto troppo". E' vero, mi chiesero molto.
Forse troppo". |
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21 luglio 2008
Repubblica
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